ll retail sempre più centrale e strategico in un contesto macroeconomico complesso, in cui si fa accesa tra le aziende la sfida per fidelizzare una clientela sotto pressione. Un’arena in cui diventa imprescindibile il ruolo della tecnologia evoluta, che consente di fare fine tuning sulle esigenze del consumatore e di reagire in tempo reale. Se ne è parlato nel corso del secondo panel del nostro convegno, alla presenza di Alessandro Varisco (ceo di Twinset), Alberto Racca (ceo del Gruppo Miroglio), Mario Davalli (country manager di Cegid) e Julian Beccari (business developer di Alpenite).
«Sicuramente viviamo in un mondo complesso, ma la complessità sarà la nuova normalità – ha spiegato Alessandro Varisco -. Per questo la tecnologia è fondamentale, perché consente da un lato di dialogare direttamente con il consumatore e dall’altro di avere la capacità di profilarlo, per anticipare prontamente le sue necessità. Perché alla fine il vero capo sarà sempre lui ed è l’unico che avrà la chance di far crescere un marchio o di farlo fallire. Grazie alla tecnologia le nostre aziende, che fino a oggi sono state molto verticali, possono diventare più lineari e capaci di adattarsi alle esigenze di un mercato che richiede sempre più agilità e velocità».
La pandemia in questo, ha proseguito Varisco, ha segnato un cambio epocale: «Oggi sappiamo che non solo l’azienda più grossa può mangiare quella più piccola, ma anche che quella più veloce può divorare la più lenta. Quindi la tecnologia sarà fondamentale per cambiare la forma delle nostre imprese e ciò rappresenta una grande chance soprattutto per le realtà ancora piccole, che devono guardare ai sistemi in modo customizzabile e non complesso, affidandosi alle persone giuste».
La tecnologia è importante, ma ancora più fondamentale è il modo in cui la si usa, ha spiegato Alberto Racca di Miroglio. «Diventa imprescindibile una segmentazione più evoluta della customer base, perché in ogni momento il consumatore può fare scelte diverse. Basti vedere solo come l’evoluzione dei tassi nell’ultimo anno ha portato un’inversione di trend enorme che ha cambiato drasticamente il portafoglio della nostra cliente. Noi abbiamo quasi 800 negozi in Italia nei centri commerciali e sviluppiamo il 90% del nostro fatturato grazie alle clienti fidelizzate. Per questo è necessaria un’evoluzione e segmentazione continua, usando anche dati di terze parti, per capire come e quando interagire con la cliente».
Altro punto cruciale per Racca è il tema della relazione. «Girando per i negozi e parlando con le clienti mi sono reso conto che certi brand, soprattutto quelli plus size, avevano una grande importanza nella loro vita. Quindi abbiamo lavorato su questo aspetto. Per esempio con Fiorella Rubino abbiamo creato una community che è passata da 0 a 4mila clienti con un tasso di ingaggio pazzesco e con zero investimenti in advertising. Una community in cui non affrontiamo argomenti commerciali, come offerte, coupon e voucher, ma parliamo di cucina, di look, eccetera».
Ma come sfruttare appieno la mole di dati acquisiti sul point of sale grazie alla tecnologia? Lo ha chiesto il ceo e direttore di Fashion, Marc Sondermann a Mario Davalli, country manager South & East Europe di Cegid, player chiave nella trasformazione digitale delle realtà del retail.
«Lavoriamo sul punto vendita in oltre 70 Paesi, in tutti canali, dal negozio di proprietà al franchising ai corner, raccogliendo tutti i giorni quantità importanti di dati desunti dal cliente in tempo reale. Vediamo che c’è stato un importante cambio dopo la pandemia. Analizzando i dati raccolti nel periodo dicembre 2022-gennaio 2023 abbiamo desunto che, a fronte di 12 milioni di scontrini fatti sulle nostre piattaforme, sono state richieste ai nostri sistemi oltre 95 milioni di informazioni complementari, perché prima di finalizzare l’acquisto il cliente fa tantissime domande e il sale assistant deve reperire molte info».
In media, ha chiarito Davalli, oggi occorrono otto informazioni legate ad aspetti come stock, prodotto, tipo di cliente, segmentazione, abitudini, quindi parliamo di una transazione più complessa, in cui l’addetto alle vendite deve prendere informazioni dai device, dal crm, dall’e-commerce mentre parla con la cliente. E sono informazioni che gli permettono di dire sempre di sì al consumatore. Perché oggi grazie allo scaffale infinito non si può dire che il prodotto non c’è. Basti pensare che nell’ultimo periodo di saldi le vendite store to web sono moltiplicate per tre».
In questo processo il ruolo del venditore diventa sempre più strategico: «La customer experience - ha concluso Davalli - passa attraverso la sales experience. Quindi l'addetto in negozio deve avere una formazione digitale adeguata, che gli consenta di rispondere alle esigenze del cliente e fidelizzarlo».
Occorre insomma un lavoro di fine tuning mirato sul negozio, in cui il ruolo del sale assistant è imprescindibile per trionfare nella battaglia sempre più accesa tra i marchi. Perché se in negozio il cliente non trova la taglia o il colore, esce frustrato e poi compra l’articolo altrove.
Per Julian Beccari di Alpenite, società di consulenza che progetta esperienze e processi digitali dedicati ai clienti, adottando le tecnologie più innovative, è fondamentale la trasformazione del dato in un'informazione che si possa usare in concreto. «Parliamo anche dei dati non auto-esplicativi – ha chiarito -. Ciò vuol dire fare tesoro delle informazioni che fino a qualche anno fa non si analizzavano. Se per esempio una persona entra in negozio ed esce dopo qualche minuto ci sta dando input importanti. Vuol dire che la vetrina era accattivante e magari l’interno no. Altro esempio? Tracciare i capi che una persona prova in camerino e poi compra o non compra ci dà molte informazioni sulle taglie, sul colore, sullo stile che interessa al consumatore.
Lampante ancora l’esempio della vetrina, ha concluso Beccari: «Prima del lancio di una nuova stagione testiamo con i nostri clienti da 10 a 15 vetrine per vedere come reagiscono i loro consumatori, basandosi anche su dati scientifici come battito cardiaco o sudorazione. Ciò aiuta i brand a portare fino al 15% in più di persone in store, che vuol dire svariate centinaia di migliaia o milioni di euro in più di fatturato a stagione».
Ma qual è la giusta misura con cui utilizzare la tecnologia senza stressare l’organizzazione ed essere invasivi nei confronti del consumatore? «Il prodotto è e deve rimanere centrale - ha chiarito Varisco -. Il rischio che si corre è avere talmente tanti strumenti che, se calati in negozio, possono portare le venditrici a perdere di vista il concetto che la donna vuole comprare prima di tutto il vestito. Occorre quindi un tempo di rilascio lento della tecnologia per dare modo di assimilare le novità. Il tema fondamentale è che tutto alla fine sia riportato sul dna del marchio con coerenza di linguaggio, corretto utilizzo di informazioni e congruità di approccio verso la cliente. È necessario insomma che ci sia equilibrio tra il dna del brand, il marchio stesso e la consumatrice e che questo sia un rapporto volto alla crescita e non a stancare».
Importante, ha aggiunto Racca, è che le aziende non si frappongano nella customer journey della consumatrice. «Bisogna mettersi nei suoi panni e ascoltarla, cercando di modulare la comunicazione, evitando la bulimia di informazioni. Importante inoltre è lavorare in ottica di visual merchandising per combinare capacità, movimentazione e modularità. Ma il fattore chiave di tutto è la mentalità con cui si affrontano le cose: il punto è testare, misurare e imparare».
Della necessità di ascoltare sempre più la clientela per poter costruire insieme sistemi che possano funzionare è convinto Mario Davalli. Emblematica a questo proposito l’esperienza con Benetton, che ha inserito un sistema di Cegid nel processo di digitalizzazione dei suoi store: «In dieci mesi siamo andati live con 1.000 negozi – ha raccontato Davalli -. Ogni mese si raccolgono 10mila nuovi clienti, che portano in azienda dati importanti, su cui si fanno operazioni mirate che permettono un aumento delle vendite a doppia cifra». L’investimento in tecnologia dunque è imprescindibile, ha concluso, ma l’importante è che un’azienda lo possa ripagare nell’arco di 6/12 mesi, «altrimenti vuol dire che si tratta di una scommessa che non funziona».
Ma, ammonisce Julian Beccari, non bisogna solo accontentarsi di guardare a ciò che si ha in casa, perché altrimenti si ha una visione parziale del mondo dei propri clienti. La community per esempio è fondamentale e bisogna considerarla attentamente: «Se ho un consumatore che viene in negozio e non trova la taglia o il colore la sua sarà un’esperienza negativa. Se quella esperienza è raccontata in un canale fuori da quelli presidiati dall’azienda, come social media, community private o forum, quella diventa un’informazione che l’azienda perde del tutto».