Nel terzo trimestre fiscale terminato il 29 febbraio i ricavi di
Nike sono saliti del 5% a 10,1 miliardi di dollari, contro i 9,8 miliardi attesi dagli analisti (fonte
Refinitiv), trainati dal Nord America (+4%), mentre la Greater China ha registrato un -5% dopo 22 trimestri consecutivi di incrementi a cifra doppia.
Le vendite online hanno registrato un aumento del 36% rispetto allo stesso quarter del 2019. In Greater China sono salite del 30% ma non è stato sufficiente a compensare il crollo dei ricavi nei negozi fisici.
L’utile si è attestato a 847 milioni di dollari, dagli 1,1 miliardi di un anno prima. Si tratta di 0,53 dollari per azione dai precedenti 0,68 e inferiori ai 59 centesimi stimati dagli analisti (fonte
FactSet, che in dicembre prevedeva 77 centesimi, poi ritoccati per effetto delle mancate vendite in Cina causa coronavirus).
I profitti, come spiega il colosso dell’Oregon in una nota, risentono di maggiori oneri legati a un cambio di modelli distributivo in Brasile, Cile, Uruguay e Argentina.
Nike non ha formulato previsioni per l’ultimo trimestre dell’esercizio, ma il ceo
John Donahoe (nella foto) ha affermato che si comincia a vedere una ripresa in Cina, dove il virus è partito e dove ora sono stati riaperti circa l’80% dei negozi chiusi in precedenza. Gli analisti stimano che il gruppo abbia un’esposizione superiore al 15% relativamente al mercato cinese.
Dal 16 marzo, invece, sono chiusi i negozi in Giappone e Corea. Stop totale anche negli Usa e in Europa.
A preoccupare gli analisti ora è proprio l’esposizione europea, oltre all’accumulo di le giacenze nei magazzini globali e al mancato lancio di una serie di prodotti, previsto per le Olimpiadi in Giappone, rimandate al 2021. Trattandosi di un brand-chiave su scala globale, gli esperti di
Bank of America sono però più ottimisti per Nike che per competitor come
Under Armour e
Adidas.
e.f.